Il giovane Pompeo Pianezzola

Quando varcò per la prima volta la soglia della Manifattura Barettoni, Pompeo Pianezzola aveva appena quattordici anni.
Nessuno, allora, poteva immaginare il percorso che lo avrebbe portato a diventare una delle voci più significative dell’arte ceramica del Novecento. Ma Guglielmo Barettoni intuì subito qualcosa: ne colse l’estro, la disciplina, la serietà, l’urgenza del disegno.
Fu assunto come apprendista decoratore il 1° maggio 1936.
Furono anni intensi, di formazione silenziosa e osservazione costante, in cui imparò il mestiere dal vivo, a stretto contatto con le maestranze, con la tradizione e le tecniche della ceramica artistica.
Poi partì. Studiò, viaggiò, cercò. E quando tornò, nel 1945, aveva ventiquattro anni. Era cresciuto, e con lui la sua visione.
Guglielmo lo accolse di nuovo, ma questa volta come designer e artista. Gli mise a disposizione uno studio tutto per lui, dove poter progettare e sperimentare.
E qui rimase fino al 1957.
Furono anni di grande libertà e di grandi sperimentazioni. Pianezzola non si limitò a decorare ceramiche: decorò muri, realizzò pannelli, ritratti e quadri, modellò opere uniche, intrecciando la sua visione con la grande tradizione veneta.
Il suo fu un dialogo continuo con la fabbrica, con la luce, con l’architettura. Un modo di lavorare che univa artigianato e intuizione, mestiere e invenzione.
In quegli anni, la Manifattura era anche una casa per Pompeo: abitava in un appartamento all’interno della proprietà.
Partecipava alla vita quotidiana della famiglia Barettoni, condivideva pranzi, letture, conversazioni.
Quando Guglielmo accoglieva ospiti — artisti, scrittori, viaggiatori — Pompeo veniva spesso invitato. Ascoltava, osservava, dialogava. Fu proprio qui che incontrò per la prima volta Gio Ponti.
Era giovane, ma attento. Intelligente, curioso.
A distanza di anni, camminando tra le stanze, i cortili e le barchesse della Manifattura, ci si accorge che ciò che Pompeo Pianezzola ci ha lasciato è qualcosa di più di un ricordo.
È una mostra diffusa, inconsapevole, integrata negli spazi e nei gesti quotidiani. Le sue opere sono ancora lì — sui muri, tra i piatti, lungo le scale, tra le maioliche e gli affreschi — come presenze discrete ma costanti, parte viva della fabbrica.
Quando le realizzò, non erano pensate come opere da museo.
Per lui erano lavoro. Un lavoro portato avanti con cura, immaginazione e rigore.
Era nel libro paga della Manifattura, progettava decori, pannelli, fregi.
Eppure lo faceva con un respiro che andava oltre l’utile. Era un artista, ma anche un uomo di mestiere.
Per questo, forse, ciò che ha lasciato è così potente: nasce da una necessità interna, e non da un’intenzione celebrativa.
Oggi, con gli occhi del presente, quelle opere ci parlano in altro modo.
Sono diventate testimoni di un percorso. Segni tangibili del fatto che, dallo studio affacciato sul giardino, è partito un artista destinato a lasciare un’impronta importante nella ceramica del Novecento.
È qui che cominciò. Ed è qui che tornò, più volte, anche quando il suo nome era ormai altrove — nei musei, nelle esposizioni, nei cataloghi.
Ma il tempo trascorso alla Manifattura gli era caro.
Qui aveva avuto libertà. Qui aveva trovato occhi che lo capivano.
Ed è forse per questo che molte delle sue tracce sono rimaste.
Non per essere conservate, ma perché facevano parte della vita del luogo.
Oggi possiamo leggerle come una mostra.
Le visite alla mostra dedicata al giovane Pompeo Pianezzola presso la Manifattura si effettuano su appuntamento.